TIMELESS – capitolo 2

Thomas

 

Parcheggiai la moto davanti al locale e scesi, togliendomi il casco e appoggiandolo sul sellino. La porta del pub era aperta e il furgone di Steven era posizionato in retromarcia. Scossi la testa: gli avevo espressamente chiesto di aspettare a iniziare i lavori. E poi non riuscivo a comprendere perché dovesse lavorare anche il sabato mattina. Sarebbe potuto restare a casa con mia cognata e mandare qualcuno dei suoi ragazzi, invece sembrava essere diventato un dannato stacanovista. E, se c’era una cosa che i nostri genitori ci avevano sempre insegnato, era che non importava nulla più della famiglia. Concordavo, anche se i Patriots per me erano sullo stesso livello.

Entrai e mi guardai attorno cercando mio fratello, ma non lo vidi. Il fatto che non funzionassero più le tubature dell’acqua era diventato un vero problema, dato che il mio appartamento era proprio sopra al locale. Avevo dovuto chiedere ospitalità, e io detestavo non poter vivere a casa mia, soprattutto dopo i sacrifici che avevo fatto per acquistare quel posto.

Delle risa mi indussero a seguirne la direzione, ma quello che trovai quando giunsi alla meta mi lasciò un po’ perplesso. Steven stava ridendo a crepapelle – cosa che non faceva mai – e il merito doveva essere della piccoletta rossa che gli stava davanti.

«Interrompo qualcosa?» esordii, irrompendo nel magazzino.

Gwen si sistemò i capelli, voltandosi verso di me, e stava ancora ridendo.

«Ciao, Thomas» mi salutò.

Nessuno mi chiamava più così, a parte mio padre quando lo facevo incazzare. Per tutti ero Tommy. Ma Gwen non era tutti, e non riusciva a nascondere il fastidio che nutriva nell’avermi attorno.

Da ragazzino ero stato un coglione, me ne rendevo conto anche da solo, ma tirare un paio di trecce o sbatterla in mare a novembre non potevano essere cose così gravi. O almeno, avevano potuto esserlo all’epoca, ma non ora che eravamo grandi.

Insomma, erano solo cazzate di un ragazzino iperattivo. Eppure, avevo notato che le cose fra noi erano diventate fredde, o meglio, Gwen evitava ogni contatto con la mia persona. Ed era divertente vederla all’opera, considerando quanto fosse legata al resto della mia famiglia.

«Piccoletta» dissi a mo’ di saluto. «Non dovevamo vederci fra mezz’ora?».

«Passavo di qui e ho visto che era aperto» replicò, e lo fece con il solito tono di quando parlava con me, che era sempre infastidito. Poi guardò mio fratello e si trasformò in un’altra persona. «Juliette sta bene?».

«Alla grande» annuì Steven.

«Salutala. Devo passare a trovarla, è da agosto che non la vedo».

«Ne sarebbe felice».

«Ho i documenti» li interruppi. «Tieni».

Gwen li prese, dando loro un’occhiata veloce. Annuiva, era un buon segno.

«Dato che dovete parlare d’affari, io vado» si intromise Steven. «Quando sei pronto fai un fischio, in due settimane ti ribaltiamo tutto e avrai delle tubature nuove di zecca» mi disse, dandomi una pacca sulla spalla.

«Bene» annuii, ma la mia attenzione era tutta per Gwen: da lei dipendeva il mio prestito. Speravo che il mio commercialista non avesse dimenticato nulla.

«Ti chiamo dopo» aggiunse mio fratello. «Ciao, Gwen».

«Ciao» lo salutò lei con un sorriso.

Inclinai il capo e fissai le sue labbra, cercando di comprendere il motivo per il quale a me un sorriso di quel tipo era vietato. Lei si accorse di avere il mio sguardo fisso sul viso e si schiarì la voce, mettendosi una ciocca di capelli rossa dietro all’orecchio.

«Mi pare ci sia tutto».

«Ti offrirei un caffè, ma è tutto fuori uso» mi ritrovai a risponderle.

Scrollò le spalle e si spostò nella zona bar, poi si sedette su uno degli sgabelli del bancone e notai che indossava un paio di scarpe con un tacco assurdo.

Quando era diventata una donna sofisticata? Dov’era finita la ragazzina con la carnagione chiara, una spruzzata di lentiggini sul naso e le trecce rosse?

Mi resi conto che quella ragazza era una completa sconosciuta per me.

«Allora, ho parlato con il capo della filiale di Salem» riprese. «In settimana aprirà un conto corrente su cui ti accrediteremo la somma da te richiesta. Le garanzie ci sono tutte, dato il valore dell’immobile» continuò, e io mi sentii più leggero, anche perché l’idea di dover chiedere qualcosa ai miei mi mandava al manicomio. «Abbiamo anche deciso di non spostare il tuo mutuo attuale, dato che la cifra che paghi è molto bassa e che, tra poco meno di un anno, avrai colmato il tuo debito» aggiunse.

«Immagino sia una cosa buona» osservai, avvicinandomi.

«Lo è, Thomas. La tua situazione patrimoniale è ottima e non hai mai saltato un pagamento. Le entrate del locale sono piuttosto elevate ma, nel caso in cui andasse male, potremmo rifarci sullo stabile. Ora dobbiamo solo decidere la tempistica delle rate».

Non avevo mai trovato affascinanti i numeri o tutte quelle cazzate amministrative ed economiche, ma la piccoletta aveva un tono di voce piuttosto sexy quando si dimenticava di odiarmi.

«Tu cosa mi consigli?» le domandai.

«Considerando i vari fattori economici, e il tasso di interesse basso che sono riuscita a farti, sessanta mesi dovrebbero essere sufficienti. Verrebbero rate all’incirca di mille dollari al mese… potranno pesarti un pochino per il primo periodo, ma una volta estinto il mutuo non te ne accorgerai neanche».

Annuii, pensando che mille bigliettoni al mese erano un sacco di soldi, ma con un po’ di sacrificio e qualche rinuncia sarei riuscito a farlo.

«E sarai tu a gestire tutto?» indagai.

«All’inizio, sì. Poi sarà il mio collega a seguirti».

«Ma io voglio te». Parlai senza neppure rendermene conto, ma fui veloce a sistemare il tiro. «È che non mi va che uno che non conosco segua i miei interessi».

Gwen arricciò il naso e parve assimilare le mie parole.

«Per qualsiasi cosa potrai chiamarmi, ma ti aprirò comunque un conto qui per comodità».

Mi sfregai il mento con la mano, quindi guardai prima Gwen e poi i fogli che erano posizionati di fronte a lei.

«Quindi è tutto qui?».

Scosse la testa in un cenno affermativo e mise in ordine i documenti.

«In settimana dovrai venire in sede a Boston per le firme, ma sono certa non ci saranno intoppi. Anche se a differenza di qualche anno fa non elargiamo più prestiti con facilità, tu sei un cliente eccellente».

«Oggi mi stai lusingando» la canzonai.

Finse di non dar retta alla mia affermazione e si alzò dallo sgabello, muovendo la sua chioma rossa; mi ritrovai a pensare che non c’era niente in lei che poteva anche solo farla somigliare a una “piccoletta”. Una parte di me la ricordava ancora bambina, un’altra non poteva fare altro che immaginare le mie mani sulla sua pelle candida.

«Devo andare» disse, afferrando la borsa.

«Ti andrebbe di vedere il mio appartamento?» le chiesi di getto, sperando che restasse ancora un attimo. Non sapevo neppure io perché mi stessi comportando in quel modo, anche se con ogni probabilità volevo capire perché non potesse trattarmi come i miei fratelli.

«No» rispose concisa, senza neppure guardarmi. «Ho visto abbastanza appartamenti di scapoli incalliti e alla fine sono tutti uguali».

Aggrottai la fronte, perplesso.

«Esattamente, quanti appartamenti di uomini single hai visitato?».

Alzò le spalle e si avvicinò a me, fronteggiandomi. No, quella ragazza non era più una piccoletta. No di certo.

«Forse un numero equiparabile alle donne che hanno già visto il tuo covo?».

Per la prima volta, restai in silenzio davanti alla provocazione di una ragazza: Gwen era diventata sfrontata e sfacciata. E invece di trovarla fuori luogo, la cosa attirò la mia attenzione.

La attirò alla grande.

«Quindi potresti rappresentare un numero in più della lista, e io lo stesso» replicai. «Perché non vedere se la tua teoria è esatta?».

«Perché ho di meglio da fare» scandì, in modo che io potessi distinguere ogni parola alla perfezione.

«Uhm» mormorai. Non mi spostai e lei neppure. «Ti proporrei un giro in moto, ma non credo che la scopa che hai nel…».

Non mi diede modo di proseguire perché con la mano libera mi diede un pugno sul petto.

«Chiudi quella boccaccia».

Sorrisi e indietreggiai, ma non per la forza della sua spinta – Gwen era la metà di me – ma solo per poterla osservare dalla giusta distanza. Le sue guance erano arrossate e gli occhi sembravano delle fiamme ardenti, nonostante fossero verdi.

«Altrimenti cosa fai?» la provocai.

«Nonostante tu sia bravo con il locale, resti ancora un ragazzino con la lingua lunga e un vocabolario corto» sentenziò con astio.

Si spostò, dandomi le spalle, e così ebbi completa visuale sul suo sedere. Guardarlo era un po’ come commettere un piccolo atto incestuoso; non era mia sorella, ma l’avevo sempre catalogata come una di famiglia. Questo, però, accadeva prima.

«Mi dirai mai perché ce l’hai tanto con me?» le chiesi.

Non si fermò, ma proseguì dritta verso l’uscita.

«Se non te lo ricordi significa che non è importante» sentenziò poi, come se dietro quelle parole si nascondesse il più grande dei segreti. «E non mi guardare il culo».

Sparì con la luce del sole, mentre mi chiedevo se ridere o riflettere sul senso delle sue parole. Alla fine, decisi che scroccare il pranzo a mia madre sarebbe stata la decisione migliore.

 

«Questa torta è uno spettacolo» commentai con la bocca piena.

«Grazie, tesoro».

«Se Thea fosse qui la divorerebbe».

Mia madre annuì, poi si lavò le mani e guardò fuori dalla finestra. Sembrava attendesse qualcuno, forse uno degli ospiti del B&B. Mancavano un paio di settimane a ottobre e i turisti stavano popolando la nostra città. Tutti si preparavano al mese di Halloween e io speravo di poter riaprire il locale il prima possibile, per non perdere troppe entrate.

«Tua sorella ha chiamato ieri sera, è presa a organizzare l’evento benefico» mi informò distrattamente.

Annuii, buttando giù l’ultima forchettata di crostata, poi versai dell’acqua nel bicchiere.

«Sì, ci siamo senti per messaggi. Sembra felice».

«Lo è» affermò con convinzione lei, appoggiandosi al lavandino. «Alexander era la svolta di cui aveva bisogno, lui tira fuori il meglio di lei».

«Però non dirglielo o il grosso ego di King rischia di esplodere» borbottai.

«Una cosa che ha in comune con te».

«Non è vero» protestai.

«È arrivato tuo fratello» cambiò argomento.

«Steven?».

«No, Dennis».

Mi alzai, sistemando i jeans, e lanciai un’occhiata verso il giardino che dava sulla strada.

Dennis era più piccolo di me di poco più di un anno, ed era il mio opposto. A differenza mia, infatti, aveva studiato, coronando il sogno di diventare un dottore. Da qualche mese, stava svolgendo il tirocinio presso il Boston Medical Central. Era l’unico, fra noi, che aveva portato a termine il college: io avevo mollato dopo il liceo, come Steven, mentre Thea, dopo due anni di legge, aveva decretato che non faceva per lei e se ne era andata dall’altra parte del paese.

Dennis entrò dalla porta sul retro, che dava proprio sulla cucina, ma stava parlando all’auricolare.

«Allora ti passo a prendere alle sette, perfetto. Ciao, Gwen»,

Gwen.

Mio fratello mi fissò, facendomi un cenno, poi andò a dare un bacio a nostra madre.

«Ciao, mamma» la salutò, stringendola forte. «Papà?».

«Torna dopo» e allargò gli angoli della bocca in un sorriso ampio e caloroso.

Lui si tolse la giacca e prese una tazza di caffè, poi si sedette davanti a me.

«Ho visto che il locale è chiuso» disse.

«Un problema alle tubature» affermai, guardandolo con curiosità. «Un appuntamento?».

Dennis sembrò non capire a cosa mi riferissi e allora gli indicai il cellulare sul tavolo. Un piccolo sorriso gli curvò le labbra, ma invece di confermare il mio sospetto negò, chiudendo velocemente l’argomento.

«No, solo una cena con Gwen».

Lo disse come se fosse una cosa normale per loro uscire a cena, e forse era davvero così. Del resto, Gwen era parte integrante di tutta la mia famiglia, ed ero io l’unica eccezione. Non me ne ero mai reso conto come negli ultimi due giorni. Non so per quale motivo mi infastidisse essere l’unico Harrison escluso dalla vita di Gwen, eppure era così.

Dannazione, eravamo cresciuti insieme, avevamo un passato divertente!

«Come sta la nostra Gwen?» chiese mia madre.

«Bene, è qui per il week end» affermò Dennis.

Lo sapevo fin troppo bene che lei era a Salem, e a quanto pareva non aveva messo al corrente mio fratello di quello che stavo facendo al bar. Conoscendo Dennis, non avrebbe mai perso l’occasione di rinfacciarmi questa cosa. Non che non ci volessimo bene, ma i pochi mesi che dividevano le nostre nascite avevano consolidato, negli anni, una sorta di competizione. Non ne avevo mai capito il motivo, però era così da che ne avessi memoria.

Sorrisi, ripensando a quante volte Steven ci avesse divisi durante le nostre schermaglie, ma crescendo le cose non erano cambiate. Anche se lui aveva fatto un touch down importante, scegliendo medicina e diventando il primo della famiglia Harrison a laurearsi.

Mi riscossi dai miei pensieri quando mia madre mosse la sedia per mettersi fra me e Dennis, una limonata fra le mani e l’espressione di chi sta per dire qualcosa di molto importante.

«Ho sempre creduto che sarebbe diventata parte della famiglia, la nostra Gwen» osservò, fissando davanti a sé.

«Fa parte della famiglia» la contraddisse Dennis.

«Intendevo che…». Mia madre parve pensare bene alle parole da usare, come quando da bambini cercava di spiegarci qualche concetto piuttosto complicato. «Mi ero convinta che uno di vuoi due l’avrebbe sposata».

Dennis si strozzò con il caffè, iniziando a tossire, e io, troppo sorpreso da quell’ammissione per razionalizzare davvero quello che aveva appena detto, restai immobile. Non so se mi fece più effetto l’idea di sposarmi, o comunque accasarmi con Gwen, o l’idea che potesse diventare la compagna di Dennis.

Di certo, l’ultima opzione non mi piaceva neppure un po’.

 

Ci vediamo il 15 ottobre su AMAZON!

 

@JENNYANASTAN

Materiale in revisione.

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