Surrender – Capitolo 1

Capitolo 1

Ivy

 

«È uno stronzo» sbraitai prima di buttar giù un altro sorso di birra. «Uno stronzo gigante».

«Hai ragione, Ivy, ma dovresti andarci piano con quella» mi rimproverò Gabrielle, la mia migliore amica, osservando la bottiglia che avevo in mano.

Scossi la testa, ma con troppo vigore, e vidi il barista di fronte a noi girare come una trottola. Cercando di non cadere dallo sgabello, mi aggrappai al bancone e abbassai un attimo le palpebre. Forse Gaby aveva ragione: dovevo rallentare con l’alcool. Avrei almeno dovuto mangiare qualcosa.

Ma ero così furiosa con Harry… Non potevo credere che mi avesse piantata dopo otto dannati anni, addirittura con una cavolo di lettera.

Quale ragazzo ti molla senza avere il coraggio di dirtelo guardandoti negli occhi?

Uno senza palle, un essere talmente privo di spina dorsale da assomigliare più a un serpente che a un uomo. Ed era tutto così inaspettato. E pensare che parlavamo di tutto, accidenti, eravamo amici. Dio… si era preso ogni cosa di me, e mi aveva ringraziata con un foglio di poche righe senza neppure un vero mi dispiace.

Stronzo!

 

Ivy,

ho deciso che questa città è troppo piccola per me.

Ho ricevuto un’offerta di lavoro a cui non posso dire di no, neanche per te. Quindi andrò ad Atlanta.

So quanto sei legata a casa tua, ma io voglio di più, e non ti chiederei mai di lasciare il negozio per inseguire un sogno non tuo.

Con affetto,

Harry

 

Avevo letto quelle parole almeno un centinaio di volte, ormai le conoscevo a memoria, e più le ripetevo nella mia mente più mi arrabbiavo. Non solo perché mi aveva lasciata, ma anche per il modo. Mi mandava il sangue alla testa.

Come ha potuto?

«Ivy, piantala di rimuginare» mi ammonì di nuovo la mia amica. «Tu meriti di meglio e, soprattutto, hai bisogno di goderti un po’ di tempo da single. Tu e quello smidollato stavate insieme da troppo tempo. Finalmente ti sei levata quel peso morto dalle spalle».

A Gaby, Harry piaceva – lui piaceva a tutti – ma ora lo stava denigrando perché prendeva sempre le mie parti. E lo odiava un po’ per come si era comportato.

«Harry non era un peso» obiettai, sentendo una piccola fitta al cuore.

«Sì, ma hai ventiquattro anni e hai avuto solo un uomo».

«Non è una colpa innamorarsi a sedici anni» replicai indispettita.

«Ivy, sono stata al college con te. E anche se ti voglio bene come a una sorella, sei stata la peggior compagna di stanza della storia delle università di tutto il mondo».

«Solo perché non venivo a tutte le feste?» chiesi seccata.

«Niente feste, niente alcool, niente ragazzi. Eri tutta un: “Harry deve passare”, “Harry mi porta a cena”, “Devo studiare”, “Ho l’esame”. Una vera palla».

Feci una smorfia; mi aveva propinato quel discorso così tante volte che avevo perso il conto. Cercai invece ti attirare l’attenzione del cameriere per ordinare qualcosa da mangiare.

Il ragazzo mi sorrise.

«Mi porti delle patatine con salsa piccante a parte?».

«E dell’acqua. Molta acqua» aggiunse Gaby. «Non hai mai bevuto molto» continuò, guardandomi. «Ci manca solo che domani ti svegli con i postumi di una sbronza epocale e la consapevolezza di essere stata scaricata dal fidanzato perfetto».

«Che palle» sbuffai, ma sapevo che aveva ragione. «Quello stronzo ha mandato tutto a puttane! Tutto!».

Gabrielle fece spallucce. «Vedi il lato positivo della cosa. Finalmente puoi rifarti: uscire, divertirti…». Poi abbassò la voce per non farsi sentire dagli altri e aggiunse: «Scopare senza impegno».

Le diedi una pacca sul braccio.

L’eccitazione della mia amica un po’ mi dava sui nervi: ero single da due giorni, non avevo neanche avuto il tempo di informare la mia famiglia di questa novità e lei già ci vedeva in giro per locali, immerse in feste in piscina. Non lo sapeva che, dopo una storia così lunga e importante, ci voleva un periodo di lutto? Serate a piangere davanti a film strappalacrime, momenti di puro sconforto abbracciati solo a una confezione maxi di gelato al cioccolato…

«Ecco le patatine». La voce del cameriere mi strappò da quei pensieri.

«Grazie» risposi, abbozzando un sorriso.

«Allora, hai capito quello che ho detto?» tornò alla carica Gaby, alzando il tono di voce.

Ma io stavo già divorando quelle meraviglie salate. Non mi ero accorta di quanto fossi affamata.

«Sì, fammi respirare però» bofonchiai. «Il mio mondo è appena crollato. Devo raccattare tutti i pezzi di me stessa, e non basteranno poche ore e un paio di birre» conclusi, forse un po’ troppo melodrammatica.

Lei annuì, ma sembrava pensierosa. D’altronde, Gaby non aveva mai avuto storie durature, ma portava avanti una cotta da così tanto tempo che bastava guardarla per capire quanto la parola amore la rendesse nervosa.

A differenza mia, però, non sapeva cosa potesse significare ritrovarsi sola dopo anni. Troppi anni.

Avevo amato Harry dalla prima volta in cui i nostri occhi si erano incrociati, e il suo sorriso mi aveva mandata al tappeto. Per non parlare di come mi toccava. Insieme avevamo provato ogni cosa e il sesso era sempre stato fantastico. Anche se non avevo mai avuto nessun altro, ero certa che non ci fosse nulla di simile in giro.

E lo avevo perso: non avrei più avuto indietro quei momenti. Harry aveva preferito cercare la felicità lontano dalla nostra cittadina e, soprattutto, lontano da me. Senza di me.

La musica diventò più alta e la gente iniziò a ballare. Avevo bisogno di fare qualcosa che m’impedisse di pensare a lui, così allungai la mano verso la birra e lasciai che il suo sapore amaro scendesse lungo la mia gola, rinfrescandola.

«Andiamo» gridai subito dopo a Gaby. «Voglio ballare».

Lei sorrise e mi prese per mano, trascinandomi in mezzo alla pista. Iniziammo a muoverci a tempo, ma era tutto confuso, quasi sfocato. Non so per quanto tempo restammo lì a dimenarci, ma fu abbastanza per levarmi dalla mente Harry almeno un po’. Sentivo solo la necessità di muovermi, di oscillare la testa, di lasciarmi andare come non avevo mai fatto. Come se fosse un rito di purificazione.

Poi la birra si fece sentire e, mentre la mia amica si stava strusciando contro un ragazzo, mi dileguai e corsi verso il bagno. Ci misi forse più del necessario per fare tutto, ma avevo le gambe traballanti e la mia vista sembrava perdere qualche colpo. Infatti, camminando a passo malfermo per il corridoio buio, andai a sbattere contro qualcosa di duro.

«Ma che cazzo, stai un po’ attenta!». Il tizio che sbottò mi lasciò interdetta, perché all’inizio avevo pensato fosse un muro o un armadio a quattro ante messo per sbaglio in mezzo al corridoio.

«Non ti ho visto» mi scusai, tentennando.

«Ti bastava guardare avanti, invece che puntare sui tuoi piedi».

«Ehi, ho detto che non ti ho visto» replicai irritata.

«Qualche problema?». La voce di qualcuno dietro di me interruppe per un attimo la discussione con l’energumeno che avevo involontariamente colpito.

«Sì, la stronzetta non ha la sana e buona abitudine di chiedere scusa» rispose l’omone.

«No, scusa, come mi hai chiamata?».

«Stronzetta» insistette, avvicinandosi di un passo.

«Calmatevi entrambi» tentò di ammansirci l’altro con gentilezza. «Tieni, amico, vai a farti una bevuta con qualche bella ragazza». Gli passò una banconota da dieci dollari e l’idiota la prese senza dire nulla prima di lanciarmi un’ultima occhiataccia e voltarsi, diretto verso il bancone.

«Perché diavolo gli hai pagato da bere?» sbottai, voltandomi verso lo sconosciuto.

«Perché il fratello maggiore di Polifemo non si sarebbe mai levato dalle palle e io non avevo voglia di usare le mani».

«Ma chi ti ha chiesto nulla!» urlai frustrata.

«Strano modo per ringraziare. Voi dell’Alabama siete sempre così… gentili?» domandò, alzando un sopracciglio.

Fu in quel momento che lo vidi davvero. I suoi occhi furono i primi a entrare perfettamente nel mio campo visivo, grazie a un fascio di luce che gli illuminava il viso: marroni e profondi come l’abisso, così scuri che le iridi si amalgamavano alle pupille. Non era un ragazzo, ma un uomo… un uomo terribilmente sexy, con i capelli castani e folti e la mascella squadrata. Dovevo tenere la testa inclinata verso l’alto per poterlo guardare con attenzione; non era possente o alto come il gigante di prima, però… Cavolo, se era imponente!

«Ti sei incantata?».

«No…» tentennai, cercando di non sembrare una ragazzina. «E grazie» aggiunsi.

Lui sorrise, mostrando i denti più bianchi che avessi mai visto. Poi le sue labbra formarono un mezzo ghigno, qualcosa che lo faceva assomigliare a una belva feroce, un predatore. Qualcuno da cui dovevo stare alla larga, una persona che non sapevo davvero come gestire o con la quale rapportarmi. Mi metteva in soggezione, quasi fossimo io Cappuccetto Rosso e lui il Lupo Cattivo.

Era venuto in mio soccorso, ma non sapevo quanto quel gesto fosse un bene per me.

«Direi che per sdebitarti potresti offrirmi una birra» disse. Il suo tono era cambiato. La voce era vellutata e mi avvolgeva completamente. Uno così poteva ottenere ciò che voleva da chiunque, figuriamoci da una ragazza mezza ubriaca come me.

Per un milione di motivi, non avrei dovuto bere qualcosa con lui: ero distrutta, brilla e dannatamente affascinata dall’uomo più bello su cui io avessi mai posato gli occhi. Se fossi stata saggia, avrei fatto un passo indietro, sarei andata a cercare Gaby e poi sarei tornata a casa. Ma la saggezza e la serietà non mi avevano portata a nulla fino a quel momento, solo a una relazione sfumata e a una vita troppo ordinaria.

Quindi, in quella frazione di secondo, decisi di compiere un atto avventato e non comportarmi come ero solita fare, ma anzi di lasciarmi travolgere dagli eventi.

Di lasciarmi travolgere da lui.

Solo Dio sapeva quanto avessi bisogno di essere coinvolta in qualcosa di inaspettato per dimenticare le ultime ore della mia vita e per evitare di sentirmi così poco importante. Quale occasione migliore di farlo se non con un uomo che non avrei mai più rivisto? Di solito non frequentavo mai quel locale a Mobile; era stata un’idea di Gabrielle che era voluta andare via da casa per cercare di farmi smaltire l’arrabbiatura. Forse, alla luce di quanto stava accadendo, la sua era stata la decisione più azzeccata degli ultimi anni.

«Hai ragione» confermai. «Ti meriti proprio una birra».

 

Alla bionda seguì uno shottino, poi un altro ancora. Eravamo immersi in chiacchiere inutili e aneddoti che non raccontavano né chi fosse lui né chi ero io, una conversazione che serviva solo a portarci al punto esatto in cui eravamo in quel momento. Non più al bancone, ma fuori dal locale in un angolo appartato. Lui voleva fumare e io volevo stargli accanto.

Faceva molto caldo, ma… comunque si chiamasse, non sembrava accorgersene. Mentre metteva in bocca la sigaretta, mi chiedevo come dovesse essere succhiare quelle labbra carnose. Sentire sulle mie il suo respiro caldo e profumato di alcool e tabacco. In silenzio, entrambi guardavamo il parcheggio, e la cosa assurda era che non mi sentivo a disagio.

Non più.

Poteva essere merito degli shottini che mi rendevano più spontanea e disinibita, o forse era la sua presenza, il suo magnetismo, a farmi sentire così a mio agio.

Mossi il braccio e la mia pelle entrò in contatto con la sua; sentii una scossa elettrica scorrermi lungo la colonna vertebrale. Era un’eccitazione selvaggia, per me sconosciuta, quasi primitiva. Il cuore iniziò a battere furioso nel mio petto, schiantandosi violentemente, battito dopo battito, contro la mia cassa toracica.

Lentamente, lui inclinò la testa e puntò i suoi occhi nei miei. Non avevo sbagliato poco prima: era un predatore.

Uno di quelli che ammaliano la propria preda per poi sbranarla in un solo boccone.

E io volevo essere mangiata da lui.

Non desideravo altro.

«Non dovresti appartarti con uno sconosciuto» commentò, serio.

«Tu non sei uno sconosciuto» replicai, incantata dal suo sguardo.

«Non sai neppure il mio nome» obiettò, quasi divertito.

«Ed è importante?» chiesi, senza interrompere il contatto visivo. Senza interrompere il legame tra noi.

«Dipende» osservò, lanciando il filtro della sigaretta sull’asfalto.

«Da cosa?» incalzai, con la gola secca e il respiro affannoso.

«Da quello che vuoi fare adesso».

«E quali sono le opzioni?».

C’era qualcosa di sporco ed eccitante in quello che stava accadendo.

«Se ora ci salutiamo – cosa che ti consiglio di fare – e tu raggiungi la tua amica dentro il locale, il mio nome non ti servirà» disse, e si avvicinò lentamente come una pantera pronta all’attacco. Posò una mano sul mio fianco coperto dal tessuto leggero dell’abito. «Ma se invece vorrai proseguire la serata con me, il mio nome ti servirà, e parecchio. Perché lo urlerai così forte e per così tanto tempo da perdere la voce».

«Come ti chiami?». Mi passai la lingua sulle labbra, un chiaro invito a fare qualcosa di cui probabilmente mi sarei pentita.

«Quindi hai preso una decisione» concluse. Il tono, però, non sembrava soddisfatto.

Aveva ottenuto quello per cui era lì: una ragazza facile con cui passare qualche ora. E, anche se non ero proprio quel genere di donna, per una sera potevo farlo. Volevo solo che le sue mani continuassero a toccarmi. E desideravo urlare il suo nome. Volevo sentire solo quello nella mia testa. Niente più Harry. Per qualche ora, doveva essere il viso di quello sconosciuto il mio primo e unico pensiero.

«Il tuo nome» insistetti.

«Kian» sussurrò.

La sua mano scese dal fianco alla mia gamba, accarezzandomi in modo lascivo. Ci mise poco a trovare la pelle nuda, e quel contatto mi fece fremere di aspettativa. Non solo. Era come se fossi ubriaca di lui anche se non mi aveva praticamente sfiorata.

«Io sono Ivy».

Mi mordicchiò il lobo dell’orecchio.

«La tua amica non si preoccuperà?» domandò, senza smettere di accarezzarmi.

«No, è impegnata…». Facevo fatica a parlare.

«Ora lo sei anche tu».

Mi spinse verso il muro, in quell’angolo buio dove nessuno avrebbe potuto vederci. La mia figura, ora, era completamente coperta da quella di Kian.

Mi schiacciò contro la parete e le sue dita scivolarono lungo la mia coscia; mentre mi percorreva, sentii la pelle bruciare. Mi spostò la gamba, allacciando l’incavo del mio ginocchio con una mano per stringermi di più a sé.

«Non è sensato accettare di fare sesso con uno sconosciuto».

«Non è sensato fare sesso con una sconosciuta» ripetei.

Staccò il viso dal mio collo e mi guardò dritto negli occhi. Le sue dita si mossero lente, risalendo fino al bordo delle mie mutandine.

Provai una piccola scossa elettrica, nonostante non fosse ancora giunto alla meta.

«Oh…».

«Non farò sesso con una sconosciuta» mormorò, la voce roca che mi faceva tremare e l’alito caldo che solleticava le mie guance.

Desideravo di più. Abbassai le palpebre in attesa di qualcosa che, però, non avvenne.

Un attimo prima era addosso a me, il suo corpo che mi intrappolava contro il muro, e quello dopo era ad almeno tre passi di distanza.

«Che…». Non riuscii a proseguire.

«Solo una stupida si apparterebbe con un uomo appena conosciuto in piena notte» sentenziò. Lo guardai sconvolta mentre lui in tutta tranquillità si accendeva un’altra sigaretta. «Per questa sera ti è andata bene, ragazzina. Ma stai più attenta, non hai idea della feccia umana che gira indisturbata».

Non aggiunse altro prima di voltarmi le spalle e andare verso il parcheggio. Fissai la sua figura imponente allontanarsi mentre cercavo di ricompormi e metabolizzare gli ultimi dieci minuti.

Per una dannata volta che decidevo di lasciarmi andare, di correre un rischio e di provare a essere più impulsiva, ecco che mi ritrovavo con l’uomo più sexy e bacchettone di tutto il paese.

Scrollai la testa e andai a cercare Gaby.

Cazzo, la settimana si stava trascinando di male in peggio.

Lasciata dal mio ragazzo storico.

Sedotta e abbandonata da un pezzo di idiota.

Cos’altro?

Cosa mi aspettava ancora?

 

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