CAPITOLO 1 – TIMELESS

Primo capitolo in anteprima sul sito (testo non editato), seguiranno altri due capitoli prima della pubblicazione il 15 ottobre. 

Il prologo lo potete trovare qui: http://www.jennyanastan.com/data-e-prologo-di-timeless/

 

Gwen. L’inizio.

 

 

Buttai giù un po’ di caffè con la speranza che facesse subito effetto. Stavo accusando i postumi della serata precedente e mi rimproverai per aver esagerato con la vodka. Solo a ripensarci mi veniva la nausea.

Eppure, erano sembrati così invitanti quei piccoli e gustosi shottini… poi i ricordi che avevo erano tutti mischiati, ma ero certa di essermi divertita parecchio. La scusante per essermi ridotta come uno straccio durante la settimana era la promozione di Hellene.

Non potevo fare la guastafeste.

In quel momento, in ogni caso, il mal di testa mi stava facendo impazzire e i tre Advil che avevo ingerito durante la mattina non erano serviti a nulla.

Sospirai e appoggiai la tazza sulla mia scrivania, poi presi lo specchietto e controllai di essere presentabile. Ciò che mi rimandò indietro quel malefico arnese non era ciò che speravo: le occhiaie avevano inglobato tutta la mia faccia ed ero davvero orrenda. Non che volessi fare colpo, ma ci tenevo a essere quantomeno decente.

Provai a lasciare i capelli sciolti, mi massaggiai la pelle del viso e ricontrollai l’agenda. Un ultimo appuntamento e poi sarei andata a casa per svenire sul divano.

Dio… non vedevo l’ora.

Il suono dell’interfono mi fece scattare sull’attenti e la voce di Lauren si disperse per il mio ufficio.

«L’appuntamento delle 15.00 è arrivato.»

Schiacciai il pulsante. «Digli di entrare, grazie.»

Passarono una ventina di secondi prima che la porta si aprisse, facendomi maledire ogni santo a me conosciuto. Di fronte a me si stagliava la figura dell’ultima persona che avrei voluto vedere.

Restammo entrambi in silenzio per qualche istante, poi la mia lingua riuscì a formulare una frase di senso compiuto.

«Che diavolo ci fai qui?» sbottai, senza tante cerimonie.

«È bello anche per me vederti, piccoletta» replicò Thomas, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta.

Odiavo quando mi chiamava con quello stupido nomignolo; me lo aveva affibbiato a sei anni e ancora tendeva a usarlo quando le nostre strade si incrociavano.

«Senti…» ricominciai in modo professionale «non so perché tu sia qui, ma io ho un appuntamento.»

Quell’idiota possedeva la capacità di mandarmi fuori di testa: adoravo tutta la famiglia Harrison, eccetto lui, una delle persone che meno mi piacevano sull’intero globo.

«Sono io il tuo appuntamento» affermò facendo un passo all’interno del mio ufficio, poi chiuse la porta dietro di sé.

Mi mossi con agitazione sulla sedia, cercando la cartelletta che mi aveva preparato Lauren, e sorrisi nel leggere i suoi appunti.

«No» picchiettai con la penna sul nome del potenziale cliente che dovevo vedere. «Ho un appuntamento con il signor Harry Thompson.»

Le sue labbra si curvarono in un sorriso divertito, poi ridusse definitivamente lo spazio tra noi e si sedette davanti a me.

«Non avresti mai accettato se avessi usato il mio nome.» Parlò con tranquillità, mentre a me sembrava di essere la protagonista di una candid camera.

«Non avrai…»

«Sì, l’ho fatto.»

«Tu…» Buttai un’occhiata alla cartellina e poi presi un lungo respiro. «Sei il solito idiota.»

«Hai notato il gioco di parole?» chiese d’un tratto.

«Che gioco di parole?» Mi girava la testa perché, oltre alla stanchezza, dovevo anche avere a che fare con la mia antitesi per eccellenza. E non avevo abbastanza energie per sottopormi a quella tortura. Oh, sì, era di questo che si trattava: stare nella stanza con Tommy era una sofferenza che mi sarei volentieri risparmiata.

«Dai, piccoletta, come fai a non capire?»

«Non mi chiamare così!» sbottai, alzando il tono di voce.

Sollevò le spalle, come se non gliene fregasse niente del fatto che il suo atteggiamento, anzi la sua sola presenza, mi rendeva isterica. E lo sapeva alla perfezione, non avevo mai celato il mio astio nei suoi confronti, e lui si era spesso divertito alle mie spalle.

Il fratello della mia migliore amica era sempre stato un maledetto sassolino nella scarpa. Uno di quelli che ogni volta che lo elimini poi magicamente ricompare proprio sotto la parte del piede più sensibile.

«Potrei chiamarti panda, dato lo stato della tua faccia.»

«Thomas…»

«Sei sempre così permalosa…» affermò, fissandomi negli occhi. Le sue labbra carnose si arricciarono prima di proseguire con ciò che voleva dire. «Devi aver avuto una serata pesante, di solito sei più arguta. Harry Thompson non è molto simile a Thomas Harrison?» chiese, lasciandosi andare allo schienale della sedia.

Mi mossi a disagio, cercando una posizione più comoda, poi mi umettai le labbra.

«Quanti anni hai, adesso, ventisette?» domandai con noncuranza.

«Ventotto, dovresti saperlo.»

Lo sapevo fin troppo bene.

«Non è che conti i mesi della tua esistenza» tagliai corto. «Comunque alla tua età dovresti essere un po’ più maturo, invece mi sembri rimasto al periodo in cui la tua massima emozione era quella di prendere un rospo con la tua maledetta fionda.»

Al posto di rispondere a tono, come immaginavo avrebbe fatto, scoppiò a ridere per poi farsi improvvisamente serio. Si passò la mano fra i capelli, con fare nervoso, e poi mi inchiodò con uno sguardo che non gli avevo mai visto. Azzurro e penetrante.

«Ho davvero bisogno di parlare di lavoro» mi disse. Anche il tono era differente.

Annuii, anche se avrei preferito non assisterlo io; se aveva architettato quello sgangherato piano c’era di sicuro un motivo serio. E, dato che ormai eravamo in ballo, non mi costava nulla ascoltarlo per qualche minuto.

«Allora dimmi.»

«La scorsa settimana abbiamo trovato una perdita al pub, e dopo un sopralluogo mio fratello Steven ha appurato che i vecchi tubi sono quasi tutti marciti e che dobbiamo rifarli» spiegò.

Guardai la cartelletta che l’assistente aveva lasciato sulla mia scrivania e lessi i dati che il finto signor Thomson aveva lasciato. C’erano situazione patrimoniale, debiti e mutui aperti.

«Sono tuoi o anche questi sono finti?» chiesi con sarcasmo.

«Sono miei, solo il nome è fittizio.»

«Fammi capire, hai bisogno di un prestito di cinquantamila dollari?» incalzai.

«Sì» confermò.

«Ho lavorato a pratiche simili, non dovrebbe essere un grosso problema, solo che dovrai aprire un conto qui. E trasferire anche il mutuo per l’acquisto dell’immobile che hai aperto cinque anni fa.»

In quel momento non pensavo più al piccolo bullo Tommy, ma al cliente che era un potenziale portatore di soldi. Ero lì per quello, no?

«Non so come si fa…» tergiversò, titubante.

Distolsi lo sguardo dai numeri e mi concentrai su di lui.

«Farò tutto io» lo rassicurai «ma ti devo fare una domanda.»

«Prego» mi invitò, muovendo la mano in maniera eloquente.

«Perché sei venuto qui, da me, e non sei andato alla tua banca di Salem? Boston non è proprio dietro l’angolo.» Volevo solo capire il motivo di una scelta così strana, in fondo non eravamo amici, non nel vero senso del termine.

Ci conoscevamo da sempre e mi sentivo parte dalla sua famiglia, ma con lui i rapporti erano all’incirca come quelli fra Russia e Stati Uniti durante la guerra fredda. Da anni.

Ero curiosa di comprendere i suoi motivi.

«Se fossi andato alla mia banca nel giro di mezz’ora i miei sarebbero stati informati e di conseguenza mi avrebbero obbligato a prendere i soldi da loro. Sai come sono fatti…» spiegò, e io annuii, consapevole. «La prima persona a cui ho pensato sei stata tu, sapendo che lavoro svolgi ho creduto fossi la mia migliore opzione.»

Stavo per aggiungere una frase cinica, perché non avevo idea del fatto che fosse a conoscenza del mio lavoro, ma mi morsi la lingua e proseguii quella conversazione con il massimo della serietà.

«Hai staccato il cordone, buon per te» osservai.

«L’ho fatto già da un pezzo, piccoletta.»

Non lo redarguii più perché non ne avevo voglia. Chiedere a Tommy di non fare qualcosa era come obbligare un bambino a tenere in mano una confezione di caramelle gommose e non mangiarne neanche una.

«Devo studiare le carte e forse fare un sopralluogo al pub» ripresi. «Fammi avere preventivi più precisi dai fornitori a tuo nome» continuai, poi presi una penna e segnai sul block notes una serie di documenti che mi servivano. «Ecco, qui ci sono tutte le cose di cui ho bisogno per vagliare la pratica.»

Gliela passai e lui guardò l’elenco, grattandosi la testa.

«Le porto al mio commercialista e vedo di farmi dare tutto, al momento il pub è chiuso e vorrei accelerare. Anche se mio fratello è disposto a mandare i suoi operai già lunedì, voglio essere certo di ottenere il prestito.»

Mi colpì molto il suo modo di gestire gli affari; anche se nella mia testa restava sempre un idiota, dovevo ammettere che in qualche modo anche lui era cresciuto.

«Se riesci a recuperare tutto per sabato sarebbe perfetto» incalzai.

«Sì, non credo ci siano problemi.»

«Abbiamo una filiale a Salem, vedrò di far girare tutto lì così se le cose andranno bene non dovrai venire fino a Boston.»

«E perdermi l’occasione di vedere il tuo bel faccino?»

Lo disse con una nonchalance che mi lasciò basita: a memoria, non ricordavo un suo complimento. Escluso l’incidente di undici anni prima, ma quello era un capitolo chiuso e dimenticato.

«Il faccino da panda?» lo pungolai alzando il sopracciglio con ariadisfida.

«Ti donano le occhiaie.» Parlò senza mai staccare gli occhi dai miei. «Ma ti dona tutto, piccoletta.»

«Lusingarmi non ti farà avere un trattamento speciale, Thomas.»

«Be’ tentare non costa nulla» replicò, poi sfregò i palmi delle mani sui suoi jeans rovinati e si alzò in piedi. «Allora ti faccio avere tutto per sabato.»

«Verrò a Salem nel week end» annuii. «Se mi lasci il numero ti chiamo così ci troviamo direttamente al pub.»

«Grandioso.»

Tommy si abbassò sulla scrivania per scrivere il numero del suo cellulare e, grazie al movimento d’aria, venni travolta dal suo odore. Nessun profumo, ma un mix micidiale fra bagnoschiuma maschile, tabacco e menta. Le pulsazioni del mio cuore aumentarono, facendomi sentire improvvisamente caldo. Era anche per questo che lo detestavo: ogni volta che mi stava troppo vicino il mio corpo reagiva in modo assurdo e per niente accettabile.

Non per me.

«Bene» risposi, alzandomi a mia volta per accompagnarlo alla porta.

Prima di andare, Thomas mi lanciò un’occhiata seria e mise le mani nelle tasche dei jeans.

«So che tu e mia sorella siete una cosa sola, ma vorrei non le parlassi del prestito.»

«Con Thea non parlo di lavoro, esiste la privacy» specificai.

«Bene.» Fece un cenno con la testa, quindi si spostò verso l’uscita.

«Ti chiamo io sabato» aggiunsi.

«Non è buffo?» chiese all’improvviso, bloccandosi.

«Cosa?»

«Che ci conosciamo da tutta la vita e non abbiamo i nostri numeri di telefono. Lo trovo strano» osservò pensieroso.

«Io no» dissi invece. «Non siamo mai stati amici.»

Mi squadrò, facendomi indietreggiare per la potenza del suo sguardo, e per un attimo mi sentii ancora come quella stupida bambina che lo fissava con adorazione. Ma il tempo era passato e io avevo seppellito quella piccola ragazzina insicura.

«Quelli dei miei fratelli li hai?» chiese di colpo, spiazzandomi.

«Sì» ammisi.

«E perché il mio no?» insistette.

«Steven ha ristrutturato la casa dei miei, e Dennis…» Mi bloccai un secondo. «Be’ con lui ci vediamo spesso.»

«Esci con lui?»

«Sì, ma non nel modo che pensi tu.»

«Non penso nulla, non sapevo che lo frequentassi» replicò. Sembrò riflettere su questa cosa.

«Viviamo entrambi a Boston e può capitare di andare a bere qualcosa» tagliai corto.

«Quindi sono io l’unico problema della mia famiglia.» Un sorriso sghembo gli incurvò le labbra.

«Ci vediamo sabato, Thomas.» Cercai di chiudere il discorso aprendo la porta, in attesa che uscisse.

«Non vedo l’ora, piccoletta.»

Mi passò accanto e lo seguii con la coda dell’occhio, poi lo spiai mentre afferrava il casco e la giacca in pelle che aveva lasciato nella sala d’aspetto. Fece un cenno a Lauren, che lo guardò come se fosse stato una bistecca succulenta, e sparì dal mio campo visivo.

Sbattei la porta e mi ci appoggiai contro, ma dovetti abbassare le palpebre e respirare profondamente; avrei potuto dare la colpa del mio stato ai postumi della sera precedente, ma sapevo che se le gambe mi stavano tremando era per solo a causa di Tommy.

Non eravamo mai stati niente, per tutta la vita avevamo vissuto uno al fianco dell’altra senza mai essere amici per davvero. Da ragazzino adorava tormentarmi e io amavo che lo facesse perché mi faceva sentire in qualche modo importante.

Poi era accaduto qualcosa che aveva scombinato tutti i piani, rotto gli equilibri in modo inesorabile. E mentre Tommy viveva tranquillo, ignaro di quell’attimo minuscolo, io me lo ero legato al dito.

Lo detestavo perché aveva spezzato il cuore a una ragazzina, eppure da una parte lo ringraziavo perché aveva fatto in modo che finalmente la piantassi di farmi mettere i piedi in testa da gente come lui.

Mio padre diceva sempre che i momenti brutti ci aiutano, rendendo noi più forti, i momenti normali degni di essere vissuti e quelli speciali epici.

Be’, Tommy aveva fatto in modo che non ci fosse più nessuno in grado di farmi sentire come aveva fatto lui quella sera, e mi aveva dato la forza di reagire quando qualcuno non mi trattava come meritavo.

Gli ero debitrice, e non solo di un calcio nelle palle.

Ma a lui non lo avrei mai detto.

 

(Tutti i diritti del testo sono riservati.)

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